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I vantaggi del plurilinguismo e il ruolo centrale della L1

plurilinguismo - catalano

di Caterina Catalano, Logopedista

“Ogni lingua dice il mondo a modo suo.

Ciascuno edifica mondi e anti-mondi a modo suo.

Il poliglotta è un uomo più libero”.

Con queste parole, Rudolf Steiner, pedagogista austriaco vissuto tra la fine del 1800 e gli inizi del ‘900, anticipa di più di un secolo conclusioni su cui, solo da pochi anni, si trovano d’accordo esperti di linguaggio e ricercatori.

Per molti anni, infatti, siamo stati accompagnati dal pregiudizio che l’esposizione a più lingue avesse un effetto negativo sullo sviluppo cognitivo e linguistico dei bambini; recenti ricerche hanno finalmente scardinato questa tesi, provando, al contrario, un vantaggio soprattutto in riferimento alle competenze definite generali o orizzontali: attenzione, inibizione, flessibilità cognitiva.

Facciamo un esempio: quando un bilingue si esprime in uno dei due idiomi da lui in possesso, entrambi vengono, almeno ad un certo livello, attivati mentalmente, con un’inibizione parziale di quello che non viene usato per parlare in quel momento. Da qui, alcuni autori sono arrivati a spiegare che le migliori abilità di attenzione e inibizione, si originano dal costante lavoro di attivazione e disattivazione dei diversi sistemi linguistici da gestire.

Recentemente, il vantaggio bilingue è stato studiato in rapporto alla teoria della mente. Alcuni ricercatori hanno osservato una migliore prestazione dei bilingui di 3-4 anni nei test della falsa credenza. Anche qui, la ragione del vantaggio riscontrato nei bambini bilingui è da ricondurre ad una loro maggiore capacità di inibizione (inibire la risposta che darebbero loro, che non è quella corretta), alla loro migliore competenza metalinguistica e a una maggiore sensibilità alle interazioni sociolinguistiche.

Possiamo allora affermare che conoscere e usare più lingue è una ricchezza non solo personale, ma anche un bene di valore inestimabile per la crescita della società.

Attenzione però, questo non significa assolutamente che l’acquisizione di una seconda (o terza o quarta lingua) sia un fenomeno di poco conto, che si verifica senza intoppi e con estrema facilità in tutti i casi. Soffermiamoci su due situazioni che ci interessano dal punto di vista clinico:

  1. I figli di migranti che apprendono la L2 sui banchi di scuola, solo una volta pervenuti in contesti extra-familiari (bilingui tardivi);
  2. Bambini e ragazzi italiani che si trovano ad apprendere un’altra lingua (sui banchi di scuola e fuori da essa) e che spesso incontrano non poche difficoltà.

In entrambi i casi, è giusto parlare di apprendimento perché è ormai stato superato quello che viene definito periodo “critico” per l’acquisizione del linguaggio. Quest’ultima, avviene con modalità naturali, in un ambiente informale e con il coinvolgimento soprattutto della memoria implicita. L’acquisizione di una lingua oltre la finestra temporale dei primi 5-6 anni (apprendimento, appunto), avviene, invece, prevalentemente con modalità formali, ovvero con l’apprendimento di regole linguistiche e spesso in un ambiente istituzionale.

Distinguere tra acquisizione e apprendimento delle lingue, tenendo quindi in considerazione le coordinate temporali, è estremamente importante se si considera che tali processi sembrano coinvolgere strutture cerebrali diverse, oltre che portare a diversi livelli di competenza.

Chiarita questa importante distinzione, passiamo ad analizzare le problematiche che si legano a questi due casi tipici.

Nel primo caso (figli di migranti) l’apprendimento della seconda lingua è influenzato da vari fattori:

  • Linguistici: competenza meta-fonologica nella L1, competenza nel linguaggio orale nella L1;
  • Socioculturali: gli anni di permanenza in Italia, l’età di prima esposizione alla L2, il sistema educativo di provenienza, rilevanti differenze tra L1 e L2;
  • Emotivi: sentimenti negativi verso la scuola, demotivazione, disinteresse, scarsa autostima.

Allo stesso modo, fatta eccezione per i fattori socioculturali che sono ovviamente differenti, le competenze linguistiche nella lingua madre influenzano l’apprendimento della L2 anche nel secondo caso presentato, ossia nei ragazzi italiani.

 

Arriviamo così al secondo punto centrale della nostra discussione: il ruolo chiave della L1.

Questi due casi, così lontani tra loro per certi aspetti, sono accomunati dall’influenza che esercita la padronanza della lingua materna (sia essa italiana o straniera), sull’apprendimento di una seconda (italiana o straniera).

Al di là di tutti gli altri fattori, la competenza nella lingua di origine è cruciale perché, come spiega Francesco Sabatini in un recente articolo essa diventa “la base e il termine di confronto continuo per la conquista di una buona padronanza della L2″. Solo sulla lingua materna, continua il professore, è possibile condurre un’analisi abbastanza approfondita per cogliere i meccanismi di funzionamento morfosintattico e semantico delle lingue.

Alla luce di tutto questo, concludo con alcuni consigli rivolti a tutti coloro che ogni giorno dedicano il proprio tempo ai bambini e ai ragazzi.

Per le famiglie bilingui: molte coppie si chiedono quale lingua debbano parlare in casa, per paura che la conservazione della lingua madre possa minare l’acquisizione della lingua italiana. Non ci sono controindicazioni all’uso della lingua madre all’interno del nucleo familiare e della comunità linguistica di appartenenza; al contrario, il linguaggio di riferimento in L1 deve essere ricco di tutti gli aspetti lessicali, sintattici e pragmatici, altrimenti anche la L2 rischia un’analoga povertà per mancanza di elementi cognitivi di confronto.

Per la scuola: bisognerebbe appropriarsi delle informazioni di base per poter riconoscere le tappe di acquisizione della L2, evitando di confondere i fisiologici ‘errori’ di avvicinamento degli stranieri alla L2 con potenziali disturbi di natura neuropsicologica.

Inoltre, considerando che la maggior parte dei bambini stranieri possiede, come unico luogo di utilizzo della lingua italiana, la scuola, per aumentare le loro competenze linguistiche sarebbe necessario aumentare al massimo le possibilità di contatto con la lingua italiana, creando spazi e momenti pomeridiani scolastici ed extrascolastici, con l’obiettivo di far sperimentare una full immersion linguistica.

Per quanto riguarda l’apprendimento della L2 nei ragazzi madrelingua italiani, non scordarsi mai di tenere in considerazione le loro competenze di partenza nella lingua materna. Pensiamo agli strumenti dispensativi a cui hanno diritto i bambini con DSA; ecco, allo stessi modo, pensiamo a quei bambini che prima della letto-scrittura, hanno difficoltà anche nel linguaggio L1. La loro difficoltà nel linguaggio orale L2 è una logica conseguenza. A noi il compito di scegliere il giusto approccio!

Per i clinici: E’ importante non far diventare sanitari problemi di linguaggio e di apprendimento che non lo sono; solo un’adeguata conoscenza dei processi di apprendimento del linguaggio e delle lingue può aiutarci a discernere difficoltà linguistiche da problemi neuropsicologici, evitando di incorrere in falsi positivi e in falsi negativi.

L’augurio per questo Mese della Logopedia non può che essere quello di riflettere sul linguaggio in quanto tale, sulle sue modalità di acquisizione, sul suo uso; e ancora di più spero che tutti possiamo riflettere su quello che veramente significa ruolo centrale della L1, perché solo una buona lingua madre, sia essa aulica o vernacolare, ci può aprire le porte di qualsiasi altra lingua lontana da noi.
Dott.ssa Caterina Catalano – Logopedista – Centro Dedalo Siena – dedalocentro@gmail.com

 

2 commenti

  • Federica

    Gentilissima dottoressa Catalano, volevo porle una domanda. sono la mamma di un bimbo di sette anni siamo Italiani e mio figlio è cresciuto in Italia fino ai cinque anni di età. Viviamo all’estero da due anni e mio figlio frequenta il secondo anno di scuola Australiana, la lingua usata a scuola è l’inglese. Quest’anno è stato diagnosticato a mio figlio un problema di apprendimento, il bimbo ancora non legge e scrive ed è molto indietro rispetto ai compagni di classe. mi è stato consigliato di farlo seguire da un Logopedista. La mia domanda è: la logopedia può funzionare se fatta in un’altra lingua diversa dalla prima lingua del paziente?

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